Buonasera, Comandante!
“Buonasera, Comandante!”. Era il saluto che per anni mi sono scambiato con Claudio Ponzio, barman dell’Harry’s Bar di Venezia scomparso qualche giorno fa, a cui lui replicava salutandomi militarmente. Ma quello scambio di battute e gesti, che poi sarebbe proseguito scivolando lungo le innumerevoli serate sul bancone di marmo verde di uno dei luoghi più famosi del mondo per gli appassionati del bere (e non solo), fu il frutto di una difficile e lunga conquista.
Ero tornato a Venezia nel 2008, spinto dalle ragioni più forti che sono quelle del cuore, ed ero quindi tornato all’Harry’s che avevo frequentato da ragazzo nelle mie puntate in Laguna. Ovviamente era tutto come l’avevo lasciato, rispettando lo spirito della creatura nata nel 1931 da Giuseppe Cipriani e che oggi il nipote (che porta il suo nome) partendo da quei pochi metri quadrati in Calle Vallaresso ha trasformato in un grande gruppo della ristorazione di lusso.
Tornato a varcare la “bussola” del bar, la porta girevole, mi trovai quindi di fronte al barman d’allora. Claudio era un uomo piccolo, naso imponente, occhi nero pece pungenti e saettanti che risaltavano sul doppiopetto bianco d’ordinanza e la cravatta nera. Conoscevo il locale e non ero quindi un pivello o un cliente avventizio, ma quel barman incuteva una sana soggezione. Perché il rapporto fra un cliente e un barman è una cosa complicata, specialmente in un locale come quello di Venezia dove se ci si siede sugli sgabelli al bancone la distanza fra chi serve e chi è servito è di mezzo metro. Il cliente invadente è fastidioso tanto quanto il barman invadente, perché quello spazio di mezzo è di reciproco rispetto.
Claudio non era stato sempre sulla plancia di comando. Nato a settembre del 1945, aveva iniziato a lavorare nel 1961 all’Harry’s Dolci, l’altro locale veneziano di Cipriani sull’isola della Giudecca, come ragazzo del bar. La sua funzione era di cambiare i portacenere e pulire i tavoli e fu notato da Giuseppe che poi lo portò all’Harry’s Bar di cui è stato barman fino ad aprile del 2012 quando entrò in pensione. Per Claudio la pulizia delle bottiglie dietro il bancone era motivo di vanto e, unico a farlo fra i barman dell’Harry’s, col permesso prima del fondatore e poi del figlio Arrigo, quando un cliente affezionato doveva aspettare il tavolo per la cena più del previsto o manifestava una fretta inspiegabile (quella fretta inspiegabile per tutti i veneziani), lui si girava verso l’orologio. Con nonchalance lo staccava dal muro e ne spostava le lancette indietro di una o due ore. C’era ancora tempo per restare lì, dentro quel piccolo luogo magico.
Tornato in quel luogo a cinquant’anni, ci misi del tempo per rompere il muro di accoglienza formale di Claudio, che lo portava a inarcare il sopracciglio quando vedeva un cliente comportarsi in modo non consono all’altezza del locale. Ma poi avevo capito che con quel profilo alla Totò aveva l’intelligenza paragonabile a Antonio De Curtis, tanto che spesso con un umorismo graffiante se ne usciva con espressioni degne di una tragicomica influenza greca.
E così Martini dopo Martini si creò fra noi un rapporto non più formale, ma di corretta confidenza, con tanti scambi di opinioni su Venezia e il mondo, sempre dandoci del “lei”. Perché Claudio era anche capace con uno sguardo di far sentire il cliente a casa come fosse stato lì fino a cinque minuti prima. Grazie, Comandante, dei tanti Martini e delle tante parole. Sono sicuro che ci ritroveremo su un altro bancone e che non avrà più bisogno di spostare le lancette perché avremo tutto il tempo per noi.
